... E ritorno a casa - Racconto & immagini (5)
- aa1269
- 11 lug 2016
- Tempo di lettura: 3 min

(p. 181) Dieci minuti prima dell’ora pattuita tornai al ponte e raggiunsi il Centro Visitatori. Il ragazzo mi stava aspettando. Era l’unica guida ancora al lavoro.
Il libro Trekking and Canyoning in the Jordan Dead Sea Rift di Itai Haviv diceva che per effettuare le escursioni nel tratto superiore del canyon di Wadi Mujib era obbligatorio essere accompagnati da una guida, ma la guida non era necessaria per esplorare il tratto inferiore. Infatti, quando chiesi di poter percorrere il canyon da solo, il ragazzo non ebbe nulla da ridire.
«Alle sette sarò di ritorno», dissi.
«E' importante, eh? Non tardare», disse il ragazzo. «Mia famiglia vuole che sia a casa per rompere il digiuno [Iftar] con loro.»
«Capisco. Non ti preoccupare.»
Il ragazzo mi diede un giubbotto salvagente. «Stai attento», disse. «In certi tratti l’acqua e profonda».
«Non ti preoccupare, so nuotare. Ci vediamo tra un’ora.»
Mi avviai lungo la passerella in acciaio sospesa sulla roccia. La scala che dalla passerella permetteva di vincere il primo salto ricordava una rampa d’emergenza di un ospedale.
Presto arrivai su un orrendo pianerottolo in cemento armato che si sviluppava per dieci o quindici metri lungo la parete interna del canyon. Da qui, un breve tratto attrezzato con le funi e una scala a pioli con i montanti in acciaio inox simili a quelli delle scalette in piscina mi permisero di completare il dislivello, circa ottanta metri.
Iniziai a camminare controcorrente. Il sole alle mie spalle era pronto a cadere nel Mar Morto. L’acqua mi arrivava alle caviglie. Era limpida e veniva voglia di immergervi una mano e bere. Immersi la mano e bevvi senza rallentare il passo. Camminavo spedito grazie agli stivali di gomma che avevo usato tante volte per le im- mersioni nel Mar Rosso e nel Golfo Arabico; il torrente era coperto di ghiaia e piccoli sassi bianchi o grigi e quasi tutti piatti.
Dopo circa duecento metri il canyon svolto a destra ed entro nell’ombra. Ora l’acqua mi arrivava ai polpacci. Paradossalmente, lasciai gli occhiali da sole su un sasso per paura di perderli. Proseguii più velocemente possibile dentro la profonda spaccatura geologica prodotta nei secoli dalle forze tettoniche e levigata dall’erosione. Sapevo di aver forzato i tempi. Dovevo sbrigarmi.
La meraviglia per le rocce, in alto illuminate dagli ultimi raggi di sole, si mescolava al timore, alla concentrazione o alla tecnica di arrampicata a seconda delle fasi di salita; dove fossi, cosa stessi facendo e quale fosse il successivo ostacolo rilevante da affrontare, se l’irruenza di una cascatella o la scivolosità di una roccia. Procedevo nella crescente scarsita di luce, e quando non arrampicavo issandomi sulle corde fisse per superare le cascate più impetuose, camminavo di buon passo, nell’acqua e fuori.
Raggiunsi la cascata sommitale. Più in su non si andava, quantomeno non ora, non senza corde. Anche con quelle sarebbe stata dura. Il rumore era assordante. Controllai l’orologio: le sei e trentaquattro. Avevo impiegato ventotto minuti per salire fino a qui. Feci due calcoli: restavano ventisei minuti per scendere e risalire al Centro Visitatori. Il tempo mi parve sufficiente. Avevo dato la mia parola che entro le sette sarei tornato e così doveva essere.
Infine, visualizzai mentalmente i passaggi che durante la salita erano risultati ostici da superare. Visualizzare la soluzione di una situazione complicata prima di affrontarla era una pratica comune nello sport, come in tanti altri campi della vita, e secondo gli psicologi aiutava a risolvere le situazioni in modo vincente.
I passaggi chiave erano due: una buca profonda, che andava superata schiacciandosi contro un masso alla destra di una cascatella dove la corrente era forte, e un’altra buca poco oltre, che presentava un’insidia simile.










































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